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Ailton Krenak ci fa riflettere ciò che è comunità e quello che è collettivo

L'intervista con il leader e scrittore indigeno, Ailton Krenak, alla Revista Periferias è stato un invito a riflettere sulla vita in società, in particolare ciò che abbiamo fatto con la vita e come conseguenza ci ha portato a questi tempi di pandemia.

Due buone sorprese mi hanno fornito questa lettura: riconoscere che le idee di Ailton Krenak sono all’avanguardia e allo stesso tempo, le idee anche salvaguardano la memoria tra il territorio e i suoi abitanti. L’altra sorpresa è stato l’opportunità di sfogliare i contenuti entusiasmanti di questa eccellente rivista, il risultato di un’organizzazione che mantiene lo sguardo alle periferie delle città. Inoltre, è stato con grande entusiasmo che ho letto un testo di Julia Sá Ears che ci fa ripensare l’importanza di quello chi siamo e quello che facciamo con il nostro discorso sociale. Come dice lei, “esercitare l’ascolto e avvicinarsi ai popoli originari non solo salvando un ricordo ma guarindo di modo graduale con la forza di queste voci forti che riecheggiano e recuperano la storia della terra silenziosa attraverso i nostri cementi”.

Anche l’intervista condotta da Jailson de Souza e Silva, direttore generale di UniPeriferias, è stata brillante. Un approccio ben diretto, soprattutto quando si chiede ad Ailton l’importanza delle biografie come riferimento di percorsi costruiti nelle nostre vite personali e sociale.

La risposta di Ailton dimostra una esperienza quasi antropologica del potenziale collettivo. “Penso che le biografie hanno il potere di evocare percorsi della nostra formazione al lungo di nostra vita, della nostra esperienza impegnata, sia nel contesto locale, quando vivete in una piccola comunità, sia quando siete in grado di estrapolare i limiti di quella comunità in cui ci sentiamo protetti dalla memoria e dalla storia, anche se ognuno di noi può sperimentarlo “.

Índia e a mulata - Candido Portinari, 1934

Un pensiero che considera, nella traiettoria della formazione dell’individuo, una serie di risultati dal contesto in cui vive. Per lui, superare i limiti della comunità è un’esperienza rara. Se sei consapevole non ci sono problemi. Ma, secondo lui, “la maggior parte di noi è stato butato via di questo ambiente confortevole, della vita familiare, dal vivere insieme nel caso di una comunità indigena, o in una di quelle comunità autonome che vivono nelle periferie sociale, quell’ambiente, in cui la vita prospera nonostante accordi politici e in generale, è come se vivessimo isolati dal mondo pianificato, dove avvengono molte invenzioni.

Queste sono invenzioni che la storia sociale non cattura. Per queste vite siano state esperienze invisibili, persone meravigliose che sono riuscite a fare crescere i loro figli, a formare una comunità, a proteggere un territorio, a creare un sentimento di territorialità dove quel complesso di scambi, famiglie, cameratismo andare d’accordo e i ragazzi crescono in questi ambienti con un tale potere, una tale meravigliosa capacità di libertà. Questo mondo è costituito come biosfera; luogo in cui quelle vite sono arrivate 100 anni fa, e ancora di più, sono sagge, persone con traiettorie ricche, ma che non si collegano con le complesse realtà del mondo globale di cui veniamo a conoscenza in seguito.

Nel mio caso siamo stati espulsi molto presto dal nostro territorio, perché vivevamo in un contesto di comunità che erano già state considerate comunità indigene integrate o che erano in processo di scomparsa. Era come il resto degli indiani sopravvissuti alla colonizzazione del Rio Doce, ma che avevano ancora modelli di organizzazione che implicavano un accesso comune alle cose. Avere accesso comune all’acqua, al fiume, al luogo in cui è possibile ottenere cibo, accesso alla socialità che ha coinvolto la vita di molte persone. Questi collettivi sono ciò che chiamano comunità. Penso che quando chiamano questi collettivi di comunità, la svuotano un po’ ‘del potere che hanno e lo danno forma a una situazione di comunità idealizzata – non possono problematizzare la vita di queste persone.

Disegnare la biografia di un tale ambiente è un modo per illuminare l’intero ambiente e proiettare un significato nella vita di tutti; i nostri nonni, zii, genitori, i nostri fratelli, amici d’infanzia. È una nave. È una costellazione di esseri che viaggiano e transitano per il mondo, non dell’economia e dei beni, ma nel mondo delle vite, degli esseri che vivono e vivono in una costante insicurezza. È come queste mentalità, queste persone bisognassero avere un mondo dilatato a provare il suo potenciale come essere umane creatore

Persone che sono cresciute ascoltando storie profonde che riportano eventi che non sono in letteratura, nelle narrazioni ufficiali e che si incrociano dal piano della realtà quotidiana a un piano mitico di narrazioni e racconti. È anche un luogo di oralità, dove la sapienza, la conoscenza, il suo veicolo sono la trasmissione da persona a persona. È lo più vecchio che racconta una storia,o il più giovane che ha avuto un’esperienza che può condividere con il collettivo a cui appartiene e questo integra un senso della vita, arricchendo l’esperienza della vita di ogni soggetto, ma costituendo un soggetto collettivo. Guarda l’intervista completa qui in portoghese

Se volete conoscere un poco di più su Ailton Krenak vedete in italiano qui

 

La risposta è estremamente profonda e serve a riflettere sul momento tragico e insolito che stiamo vivendo a causa della pandemia. Il fatto che siamo all’ostaggio di un virus mortale e questo succede nel mondo inteiro, insomma testimonia un modello sociale che è scaduto.

Attesta anche che i popoli stanno perdendo il loro selvaggio istinto di guarigione, il loro rapporto con la Madre Terra, Pachamama come lo chiamano gli indiani andini.

L’istinto selvaggio a cui mi riferisco è quello di costruire un individuo meno guerriero e più solidale, meno consumista e più semplice. Un individuo in cui la evoluzione è risultato da un’organizzazione sociale basata sul sentimento collettivo dell’esperienza affettiva, di guardare l’altro come un simile.

Nessun dogma e giudizi religiosi. Basta essere un microcosmo inserito nel macrocosmo. Voi già avete pensato dove rimuoviamo tutto ciò che consumiamo? Dove viene la materia prima? Certamente della madre terra!

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Lucidez do TJ-PR no caso do artista acusado de obsceno

Muita lucidez em tempos áridos para cultura e de censuras absurdas, revelou o Tribunal de Justiça do Paraná ao trancar a ação que acusava de obsceno o performer Maikon Kempinski, no espetáculo DNA de DAN. Demonstra que nem tudo está perdido!

Ao menos uma notícia boa depois do cancelamento da mostra Queermuseu, por parte do grupo Santander, em Porto Alegre, em 2017, por intolerância da extrema-direita no Brasil. Mais animador ainda é ler a análise feita pelo relator do caso,  o juiz Aldemar Sternadt, que considera “absurda e desarazoada” a ação.  Uma defesa a favor da cultura e da arte que é importante destacar, sobretudo neste momento que estamos à mercê de grupos radicais e puritanos, fundamentados em ideias retrógadas que aos poucos estão minando o desenvolvimento cultural e artístico do país.

Uma análise que o PanHoramarte não poderia deixar de reproduzir para o seu leitor. Principalmente porque a história se repete como na inquisição religiosa. 

A denúncia foi encaminhada depois que o artista protagonizou espetáculo performático com nudez artística no tradicional Festival de Dança de Londrina. E destaca que Kempinski, de forma consciente e voluntária, “realizou em lugar público espetáculo performático de caráter obsceno, denominado ‘DNA de DAN’, consistente na permanência do artista no interior de um ambiente inflável, transparente, completamente nu, sendo que, num primeiro momento, se manteve imóvel enquanto uma substância secava sobre seu corpo e, após, iniciou uma dança ritualística em interação com o público, que pode, na última hora da apresentação, adentrar o espaço cenográfico”.

Ele foi acusado com base no artigo 234, parágrafo único, II, do Código Penal, segundo o qual incorre na pena de seis meses a dois anos — ou multa — quem “realiza, em lugar público ou acessível ao público, representação teatral, ou exibição cinematográfica de caráter obsceno, ou qualquer outro espetáculo, que tenha o mesmo caráter

Fonte Conjur

Vale aqui reproduzir as palavras escritas pelo magistrado no acordão publicado neste mês de junho.

 “Inaceitável, pois, imaginar que meia dúzia de incomodados ou sensíveis com a nudez do artista, a seu talante, atrapalhassem uma apresentação artística. A arrogância e a ignorância saltam aos olhos! São pessoas que se arvoram tutores de uma população inteira, hipócritas que acreditam ter o poder de censurar o que o vizinho pode ouvir, ver e consumir!”.

O relator ainda afirma que o espetáculo não constitui crime de ato obsceno, sendo necessário observar em que contexto foi executada a performance. “A própria divulgação era bastante clara quanto ao conteúdo da encenação de maneira que compareceu ao espetáculo quem desejava. O ‘folder’ distribuído advertia sobre ‘nudez artística’ e também fazia expressa menção a classificação por faixa etária (16 anos)”. O acordão veja aqui

“O que é obsceno? A nudez? O sensual? O erótico?  As vestes sumárias nas ruas, praias e piscinas? A ausência de roupas dos mendigos e miseráveis que perambulam pelas ruas de nossas cidades?

Tenho que obscena é a nossa hipocrisia, a miséria, a corrupção, enfim, obsceno é tudo que avilta ao homem! Arte e cultura jamais serão obscenidades”. Aldemar Sternadt,

Bravo! Bravo senhor juiz! Perguntamos aos puritanos de plantão o que é mais imoral do que a fome, a miséria, corrupção e a falta de solidariedade.

Creative commons Marina Silva pelo site Correio

Ailton Krenak é convite à reflexão sobre comunidade e coletivo

A entrevista com o líder indígena e escritor, Ailton Krenak, na Revista Periferias foi um convite à reflexão sobre a vida em sociedade, sobretudo o que fizemos dessa vida e o que resultou nestes tempos de pandemia.

Duas boas surpresas me proporcionaram essa leitura: reconhecer que as ideias de Ailton Krenak são de vanguarda e ao mesmo tempo preservam a memória entre o território e seus habitantes;  e a oportunidade de navegar no instigante conteúdo desta excelente revista, resultado de uma organização que mantém seu olhar ao redor da vida social, nas periferias. Além disso foi com avidez que li um texto tão reflexivo de Julia Sá Ears que nos faz repensar a importância do somos e estamos fazendo como discurso social.  Como diz ela, “de exercer a escuta e a aproximação aos povos originários não apenas pelo resgate de uma memória mas sim por uma gradual cura a partir destas fortes vozes que ecoam e recuperam a história da terra calada pelos nossos cimentos”.

Brilhante também foi a condução da entrevista feito por Jailson de Souza e Silva, diretor geral na UniPeriferias. Uma abordagem bem dirigida, principalmente quando pergunta a Ailton sobre a importância das biografias como referência de percursos construídos em nossas vidas pessoais e socialmente construídas. 

A resposta de Ailton  demonstra uma profunda experiência quase antropológica do potencial coletivo. “Acho que as biografias tem uma potência de evocar percursos da nossa formação e da nossa vida, da nossa experiência engajada, seja no contexto local, quando você vive numa pequena comunidade, ou quando você consegue extrapolar os limites dessa comunidade onde sentimos protegidos pela memória e pela história, mesmo que cada um de nós pode experimentar.

Índia e a mulata - Candido Portinari, 1934

Um pensamento que considera,  na trajetória da formação do indivíduo, uma gama de resultados em função do contexto em que vive.  Para ele, extrapolar os limites da comunidade é uma rara experiência. Se for consciente não existe problema. Mas, segundo ele, “a maioria de nós, cuspidos desse ambiente confortável , da vida familiar, do convívio no caso de uma comunidade indígena, ou uma dessas comunidades autônomas que vivem nas periferias do social, esse ambiente onde a vida prospera à revelia dos arranjos políticos e em geral. É como estivéssemos vivendo  em isolamento do mundo planejado, onde acontecem muitas invenções. 

São invenções que a história social não captura. Acho que durante muito tempo essas vidas foram experiências invisíveis, de gente maravilhosa que deu conta de criar os filhos, de formar uma comunidade, de proteger um território, de construir um sentimento de territorialidade onde aquele complexo de trocas, de famílias, de camaradagem vai se dando e os meninos crescem nesses ambientes com uma potência, uma capacidade de liberdade tão maravilhosa. Esse mundo acaba se constituindo como uma biosfera; lugar onde aquelas vidas chegam há 100 anos, até mais, são sábiods, pessoas com trajetórias ricas, mas que não conectam com as realidades complexas do mundo global que tomamos consciência mais tarde. 

No meu caso a gente foi cuspido do nosso território  muito cedo, porque vivíamos num contexto de comunidades que já eram dadas como integradas ou desaparecidas, comunidades indígenas. Era como se fosse o resto dos índios que sobreviveram à colonização do Rio Doce, mas que ainda tinham modelos de organização que implicavam o acesso comum às coisas. Ter acesso comum a água, ao rio, ao lugar onde você podia buscar comida, acesso de sociabilidade que envolvia a vida de muitas pessoas. Esses coletivos, é isso que chamam de comunidade. Eu acho que quando nomeiam esses coletivos de comunidades esvaziam um pouco de potência que eles têm, e plasma uma situação idealizada de comunidade – não conseguem problematizar a vida dessas pessoas.

Sacar uma biografia de um ambiente desses é uma maneira de iluminar todo esse ambiente e projetar sentido na vida de todo mundo; nossos avós, tios, pais, dos nossos irmãos, dos colegas de infância. É uma nave. É uma constelação de seres que estão viajando e transitando no mundo, não da economia e das mercadorias, mas no mundo das vidas mesmo, dos seres que vivem e experimentam constante insegurança. É como essas mentalidades, essas pessoas precisassem ter um mundo dilatado para poderem experimentar sua potência de seres criadores. 

Pessoas que cresceram escutando histórias profundas que reportam eventos que não estão na literatura, nas narrativas oficiais, e que atravessam do plano da realidade cotidiana para um plano mítico das narrativas e contos. É também um lugar da oralidade, onde o saber, o conhecimento, seu veículo é a transmissão de pessoa para pessoa. É o mais velho contando uma história, ou um mais novo que teve uma experiência que pode compartilhar com o coletivo que ele pertence e isso vai integrando um sentido da vida, enriquecendo a experiência da vida de cada sujeito, mas constituindo um sujeito coletivo. Ver a entrevista completa aqui.

 A resposta é de extrema profundidade e serve para refletir sobre o momento trágico e incomum que estamos vivendo em função da pandemia. O fato de nos depararmos com o mundo inteiro refém de um vírus mortal atesta um modelo social que perdeu o prazo de validade. 

Atesta também que os povos estão perdendo o instinto selvagem da cura, da sua relação com a mãe terra, a Pachamama como denominam os índios dos Andes.

O instinto selvagem a que refiro é o da construção de um indivíduo menos bélicos e mais solidário, menos consumista e mais simples. Um indivíduo construído a partir de uma organização social baseada no sentimento coletivo da vivência afetiva, de olhar para o outro como um semelhante. 

Sem dogmas e julgamentos religiosos. Ser apenas um microcosmo inserido no macrocosmos. Que tal observarmos que tudo aquilo que consumimos, na verdade  retiramos da terra na sua matéria-prima.

The Pont Neuf Wrapped - 1985

Christo deixa um legado crítico sobre obras embrulhadas

O paradoxal artista búlgaro, Christo, que morreu recentemente, surpreendeu na última entrevista ao dizer que: "mundo não precisa das minhas obras. Eu preciso dela e de meus amigos".

Paradoxal porque contrariou o pensamento comum dos homens desafiando a arquitetura ao envolver em tecidos ou plásticos monumentos que simbolizam uma época, uma cultura. Na sua última entrevista publicada no jornal de Artnewspaper, Christo, isolado e também assustado com a pandemia, em seus 84 anos,  reafirmou o conceito de sua extravagância. “Sou um artista totalmente irracional, totalmente irresponsável e completamente livre”.

Esse sentido de liberdade o compartilhou com sua mulher francesa, Jean-Claude, que faleceu em 2009, nas concepções de suas obras. O projeto atual era de envolver o Arco-do-Triunfo em Paris este ano, porém a pandemia obrigou-o a transferir para o próximo ano. O Arco-do-Triunfo para ele era um símbolo incrível de poder, construído no alto de uma colina. Quando recebeu a autorização ficou muito entusiasmado porque o projeto era algo que já estava pronto desde 1962.

Christo não somente sonhava com o impossível, mas o transformava em realidade.

Christo - creative commons via The ArtNewspaper

A contradição na manifestação de liberdade do artista era suas obras, ao mesmo tempo que também expressaram sempre um não a opressão de confinar suas criações artísticas às quatro paredes de museus.  Christo cresceu na Bulgária stalinista e deixou seu país natal para viver em Nova York, a cidade mais cosmopolita do mundo. 

Valley Curtain – Grand Junction e Glenwood Springs na Cordilheira Grand Hogback, no estado do Colorado, nos EUA, recebeu uma grande cortina laranja. A obra permaneceu por dois dias e foi documentada em filme que hoje é exibido em grandes museus, como Tate de Londres. 

 

The Gates – Um total de 7.503 painéis foram colocados com apoio de diversos artistas durante 25 anos, no Central Park, em Nova York, ao longo das passarelas do local expondo obras. As pessoas puderam caminhar livremente e apreciar o trabalho durante 16 dias.

Floating Piers foi uma instalação que aconteceu no lago Iseo, na Itália. Apesar de ter sido criado pelo casal, o artista acabou executando-o sozinho, em 2016, após a morte de Jeanne-Claude, em 2009. Durante 16 dias as pessoas puderam caminhar numa enorme passarela flutuando sobre a água.